martedì, 26 agosto 2025

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Due montagne – parte 2

Non ricordavi il momento esatto in cui avevi iniziato a cadere.

Forse il terreno sotto i piedi era scivoloso da tempo e tu non te n’eri accorto, distratto da un orizzonte che aveva smesso di rispondere. Oppure avevi lasciato andare gli appigli, stanco di resistere, permettendo a qualcosa di trascinarti verso il basso.

Non era stato un volo improvviso, ma un cedimento lento, come il cassone di un camion che si solleva e lascia scivolare via il carico: prima piano, poi con un ritmo che non si può fermare. La montagna sembrava disfarsi di te senza violenza, ma con la certezza che non saresti tornato.

Perdesti prima l’equilibrio, poi la sensazione di avere un corpo, infine la certezza di chi eri. Davanti agli occhi cadevano per primi i trofei che avevi portato fin lassù: titoli, riconoscimenti, parole stampate su carta patinata. Li vedevi rovesciarsi nel vuoto come oggetti difettosi, simili a medaglie di latta che brillano solo in vetrina e poi si ossidano.

Fu allora che la stanchezza ti raggiunse. Non quella dei passi in salita, ma quella trattenuta per anni, rimasta nelle pieghe dei giorni, compressa in gesti ripetuti e in parole che non credevi più. Una fatica invisibile che ora si riversava di colpo, gelida, attraversandoti senza avviso. La sentisti nei muscoli che mollavano uno dopo l’altro, nelle ossa che perdevano consistenza, ma soprattutto nei pensieri, dove apriva crepe che si allargavano senza speranza di richiudersi.

L’aria era diventata nemica: invece di entrare nei polmoni, spingeva dall’interno, ti stringeva il cuore, toglieva spazio. Nel buio, i suoni tornavano distorti: voci che un tempo ti avevano spinto ora parlavano da un luogo inesistente; risate che ricordavi calde si trasformavano in metallo sottile; frasi che avevi preso per verità si frantumavano come gusci vuoti.

Non potevi fermarle, né rispondere. Più cercavi di respingerle, più si avvicinavano, finché l’unico spazio rimasto era quello in cui provavi a urlare. E scoprivi che la tua voce non c’era più: non vibrava, non lasciava traccia nell’aria.

Il tempo non esisteva. Non giorni, non ore: solo una caduta senza termine. Ogni pensiero si spezzava prima di compiersi. A volte ti sembrava di intravedere una parete vicina, un appoggio possibile, ma svaniva appena tendevi la mano, lasciandoti nel dubbio che forse non fosse mai esistito nulla a cui aggrapparsi.

Non sentivi né freddo né caldo.

Un istante prima eri in cima, convinto di aver raggiunto ciò che contava, e un istante dopo eri soltanto un corpo in caduta libera, cavo come la promessa che ti aveva spinto fin lì. Non ci fu urto, solo un rallentamento progressivo, come se il buio ti deponesse in un luogo invisibile.

Allora capisti che la caduta era finita.

E che tutto ciò in cui avevi creduto… non era mai esistito.

Aldo Palmeri

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