martedì, 18 novembre 2025

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Lettera a se stessa a vent’anni

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Deborah aveva quarant’anni quando trovò il coraggio di scrivere a se stessa. Non alla donna che era diventata, ma a quella ragazza di vent’anni che ancora le sedeva accanto nei ricordi, su un marciapiede, con una giacca troppo leggera per l’inverno.

La penna tremava tra le dita. Fuori pioveva, quel tipo di pioggia fatta apposta per accompagnare i pensieri scomodi. Ogni goccia sembrava battere sul vetro come un richiamo. Il caffè si era raffreddato, non ci badava più. Il vapore si era dissolto da tempo, come le parole che non riusciva a dire.

“Non ti scrivo per rimproverarti”, iniziò. “Ti scrivo per abbracciarti, anche se non possiamo toccarci.”
Il ricordo arrivò, nitido. Il corridoio lungo dell’ospedale, l’odore di disinfettante mescolato al fumo che filtrava da sotto le porte. Lei aveva vent’anni e mani fredde, in attesa davanti a quella stanza dove suo padre stava morendo. Nessuno glielo disse, ma lei lo sapeva: le assenze parlano, e lei aveva imparato a leggerle già da bambina.
Quando la porta si aprì, il dottore le passò accanto come se non esistesse. Nessuno pianse. Nemmeno lei. Camminò piano verso le scale, come se la lentezza potesse rimandare il momento in cui il vuoto avrebbe preso posto dentro di lei.

“Quella mattina imparasti a tacere”, scrisse. “A piegare il dolore dentro
un cassetto che non aprivi mai.”
Per anni aveva fatto lo stesso. Appariva forte, ma non era forza: era sopravvivenza. Ogni voce alta, ogni addio improvviso la riportava lì, a quel corridoio.

Poi, un martedì di primavera, tutto cambiò. Era al bar con Roberto, il suo capo. Giocherellava con la tazzina e parlava a bassa voce: “Forse dovresti essere più accomodante. Più disponibile. Sai come funziona qui.”

Deborah guardò le proprie mani. Rivide la ragazza che diceva sempre sì per paura di restare sola. Sentì che, se avesse ceduto ancora, non ci sarebbe stato più nulla da salvare.
Disse no. Non con rabbia, ma con fermezza.
Roberto rimase interdetto. Non ci furono scene né porte sbattute. Si salutarono, ognuno per la sua strada. Ma tornando a casa lei camminava dritta. Non per sembrare forte: lo era.

“Da quel giorno ho iniziato a vedere i confini”, scrisse. “A capire dove finivo io e dove iniziavano gli altri.”
La pioggia batteva più forte. Deborah si accorse che era buio: aveva scritto per ore. C’era ancora tanto da dire a quella ragazza con lo sguardo basso e il labbro morso per trattenere le parole.

Ripensò alla telefonata di ieri. Ambra, sua nipote di diciannove anni, le aveva detto con voce spezzata: “Tutti mi dicono che dovrei essere grata, che ho tutto. Ma io non riesco a respirare.”
Deborah aveva riconosciuto quel tono, quella scusa per esistere. “Non devi essere grata per le briciole,” le aveva risposto. “E non devi scusarti per volere di più.”

Ora capiva perché stava scrivendo. Non solo per la ragazza che era stata, ma per tutte quelle che ancora si nascondevano dietro giacche leggere e sorrisi pronti.

“Se potessi raggiungerti davvero”, concluse, “non ti scuoterei, non ti direi di cambiare strada. Ti stringerei forte finché il tuo respiro non si calmerebbe contro il mio petto. Ti sussurrerei che non sei fragile perché hai paura: è la paura che ti insegnerà a essere intera.”

Quando posò la penna, si accorse che una goccia era caduta sul foglio.
Non di tristezza, ma di sollievo. Come se, dopo vent’anni, avesse finalmente trovato il modo di prendere per mano quella ragazza spaventata.

Fuori la pioggia era cessata. Deborah piegò la lettera e la mise in tasca. Domani l’avrebbe data a Ambra, insieme a una giacca più pesante per l’inverno che stava arrivando. Perché a volte le parole non dette diventano il dono più prezioso per chi sta ancora imparando a stare in piedi.

Aldo Palmeri

10-12 OTTOBRE | VARESE - Palazzo Estense

1° EDIZIONE

Il Villaggio del Condominio

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