La valigia era aperta sul letto da ore. Dentro, piegati con cura, due vestiti, una camicetta bianca e il necessario per non tornare.
Si muoveva lentamente, come chi ripassa le stanze di un luogo che non rivedrà più. La mano sfiorava il libro sul comodino, la tazza preferita, il flacone di profumo quasi vuoto. Ogni tocco somigliava a un addio che non riusciva a pronunciare.
Aveva appena socchiuso le persiane, come sempre. Mai del tutto aperte, mai del tutto chiuse: una via di mezzo che lui non aveva mai compreso, come se non sapesse scegliere se tenere fuori il mondo o lasciarlo entrare.
Dal balcone saliva l’odore dell’asfalto bagnato, denso e metallico. Le prime gocce erano cadute esitanti, mezz’ora prima, ma ora la pioggia batteva piena, spinta dal vento che faceva sbattere le persiane dei vicini con un ritmo irregolare.
Lei restava ferma davanti alla finestra. Il vestito nero la disegnava contro la luce grigia, i tacchi bassi, il trucco appena più deciso.
Non si era preparata per lui.
Una mano lasciava un alone sul vetro, l’altra stringeva il telefono con forza. Lo accendeva, lo spegneva, scorreva messaggi. A volte pareva sul punto di scrivere, poi si fermava, con il gesto sospeso a mezz’aria.
La borsa era sulla sedia. Le chiavi scintillavano nell’ingresso. In attesa.
Lui la osservava dalla cucina, senza più parole. La decisione lei l’aveva presa da tempo. Lo aveva capito dal modo in cui evitava i suoi occhi, dall’alzarsi già vestita al mattino, pronta a scappare. Non più litigi, solo indifferenza cortese. Colazioni in silenzio, ciascuno immerso nel proprio schermo. La sera, programmi diversi: lei con le cuffie, lui davanti a un televisore muto.
Fuori, il temporale cresceva. I tuoni lontani vibravano come un brontolio profondo. Le tende si gonfiavano, portando dentro l’odore elettrico della pioggia. Lei controllò di nuovo il telefono. Sospirò, chiuse gli occhi, pronta a raccogliere il coraggio. Poi si voltò per prendere la borsa.
Fu allora che lui si mosse. Con passo leggero prese il maglione grigio
sulla sedia. Era quello delle serate di film e divano. Glielo posò sulle spalle, lentamente, attento a non sfiorarle i capelli. Come aveva fatto già mille volte, quando ancora si prendevano cura l’uno dell’altra.
Non disse nulla. Ma abbassò la mano dal vetro, lasciando il telefono sul tavolo.
Il maglione profumava di detersivo e colonia, e insieme di ricordi: domeniche mattina a letto, colazioni lunghe, risate leggere.
Un tuono squarciò l’aria. La stanza si accese di lampi bianchi e ricadde nell’ombra.
«Non so se torno.»
Lui annuì. Non cercò spiegazioni. Prese un bicchiere, lo riempì d’acqua fresca e lo posò accanto al telefono. Se fosse tornata, se avesse avuto sete, sarebbe stato lì.
Poi rimase a pochi passi, le mani affondate nelle tasche, i pugni chiusi contro i palmi. Non la invitò a voltarsi, non cercò le sue mani. Restò e basta. Presente.
Il temporale ululava tra i palazzi, la pioggia rigava il vetro in diagonali irregolari, le auto sollevavano muri d’acqua che si infrangevano sui marciapiedi. Lei fissava la strada allagata, mentre i lampi le illuminavano il viso di una luce fredda. Il respiro si fece più lento, più profondo. Come se in quel caos trovasse una calma che dentro casa non riusciva più a sentire.
Raccolse le mani nel maglione, cercando calore.
E rimase.
La borsa sulla sedia, il telefono che vibrava sul tavolo, con una luce intermittente che non la sfiorava più.
Restava ferma davanti alla finestra, il volto attraversato dai lampi che entravano a strappi nella stanza.
La città correva sotto la pioggia. Dentro, invece, tutto taceva. Solo il respiro di lei, più lento, più profondo.
Lui, a pochi passi. Le mani nelle tasche, il corpo leggermente piegato in avanti.
Non un tocco, non una parola. Solo presenza.
Il temporale cresceva. L’acqua rigava i vetri, li cancellava a tratti, poi li restituiva limpidi. Ogni lampo ridisegnava la stanza, ogni tuono faceva tremare il pavimento.
Scelse di restare.
Almeno per quella sera.
Almeno finché il temporale non fosse passato.
Aldo Palmeri