martedì, 18 novembre 2025

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Veleno

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Lei arriva quando non dovrebbe. Sempre.
Solleva lo sguardo dal laptop e la vede oltre la vetrata del caffè.
Silhouette che non si dimentica: spalle dritte, passo sicuro, la città che si ritrae per lasciarla passare. Lei non guarda mai dove mette i piedi: ciò che tocca si fa solido da sé.

Tre mesi di disintossicazione. Tre mesi: sveglie disattivate, numeri cancellati, sonno che finalmente non morde. In terapia ha detto “non mi fa bene” senza morire. Il cuore, in fondo, si è riadattato, a modo suo.
E adesso eccola. Di nuovo lì.

Irene spinge la porta con un gesto disinvolto, ha il telefono all’orecchio e scoppia in una risata pulita che taglia il brusio. Lo sguardo inciampa addosso a lui, appena un battito, poi scivola oltre. Un oggetto. Un ex.
Federico sa che dovrebbe alzarsi, chiudere, pagare e uscire dal retro.
Mandare un messaggio a Gabriele, il suo terapista: “Mi è passata davanti.”

Invece resta.
Finge di leggere il report. Le dita scorrono e non cliccano.
Irene ordina un cappuccino. Le porgono un tazza con il manico leggermente sbeccato; lei ne sfiora il taglio con l’unghia, una
mezzaluna di smalto saltato. Per un istante guarda il difetto come fosse una piccola ferita. Il suo profumo arriva prima della voce: vaniglia con un fondo più scuro, come zucchero lasciato sul fuoco.

Il telefono di Federico vibra. Sarah: “Birra stasera?” Lui abbassa lo schermo. Non risponde.
La voce di Irene si fa bassa, complice, parla con qualcun altro. La curva morbida tra affetto e promessa è la stessa. Una dose, pensa lui.
Non solo veleno: febbre, fame, corrente nei muscoli. Il “sì” che accende e spacca.

La prima volta in una terrazza, due anni prima. Lei alla ringhiera, un calice di rosso in mano, la città là sotto, come un acquario. Federico fece una battuta scema sulla musica. Il sorriso di lei: non scaldava, bruciava. “Tu guardi altrove,” aveva detto. È così che aprì una porta spalancata.
Poi arrivarono le sparizioni, come piogge sottili.
23:17: segreteria.
08:02: messaggio letto, nessuna risposta.
Una settimana: foto su Instagram in un locale mai nominato, luce viola e un bracciale nuovo. Quando tornava, scontrini spiegazzati, “corso di formazione”, una risata, e poi niente. Lui annuiva e teneva il conto, in silenzio.
Le ambiguità aprirono stanze. Lui imparò a muoversi al buio, memorizzando spigoli. Bastava un “Sei sveglio?” e i principi
diventavano gomma. Bastava il pollice di lei all’attaccatura dell’orecchio e la rabbia cedeva, come un cane stanco.

Una notte, alle 04:23, chiamò da un numero sconosciuto. “Sono qui sotto. Mi apri?” Federico scese in pigiama e giubbotto. Aveva un’aria persa e gli occhi lucidi, il mascara sbavato; rideva per non crollare.
Sul sedile del taxi restò una ricevuta: via Ostiense → via Merulana, due fermate che non c’entravano con nessun corso di formazione. Lui non chiese. Le porse una tazza di tisana, le cedette metà del letto e rimase in piedi, nel corridoio, a guardare la porta come a farle la guardia.
Un’altra volta gli chiese le chiavi “per lasciare una borsa”. Non le restituì per settimane. Quando le riconsegnò, il portachiavi aveva un
graffio, un’iniziale cancellata. “Non ricordo dove l’ho appoggiato,”
disse. Lui finse di crederle. Era già nell’addestramento: fidarsi il minimo indispensabile e dimenticare tutto il resto, per poterla ancora desiderare.
“Federico.”
La voce gli arriva alle spalle. Non è sorpresa: è il tono che si usa con chi non si è mai perso. Lui si gira. Irene è in piedi, ha la tazza tra le mani, il cappotto aperto come se il freddo fosse di altri.
“Ciao,” risponde. Gli fa male la bocca intorno a quella parola.
“Non ti vedevo da un po’.” Sorride, ma tarda un istante prima di farlo, come chi sceglie un’espressione.
“Lavoro,” fa lui. “E tu?”
“Giro.” Alza una spalla. “Progetti, persone. Sai com’è…”
Lui non lo sa. Ma sa come piega la testa quando mente: verso sinistra.
Lo fa anche adesso.
Irene indica la sedia e si siede senza aspettare risposta. Il telefono resta rovesciato sul tavolo; quando una notifica illumina lo schermo, lo copre con il palmo come si copre una ferita.
Appoggia la rivista che teneva tra le mani, portandosi la tazza alle labbra. Dopo un sorso la riprende, la sfoglia distrattamente tra una battuta e l’altra, finché le dita si fermano su una pagina.
Sorride. Picchietta la punta delle unghie sulla foto e poi la accarezza con i polpastrelli.
Federico segue lo sguardo e riconosce il suo volto nella rivista. In quel gesto silenzioso c’è tutta lei: il piacere sottile di contemplare la propria immagine, quella vanità che si compiace di ogni riflesso di sé come di una droga di cui non sa fare a meno.
“Sei diventato invisibile,” dice. “Mi sembrava impossibile.”

“Ho smesso di cercarti.” È vero, ma non basta.
“Ti ricordi Tivoli?” Una pietra bagnata nella memoria. “La notte delle stelle. Io parlavo, tu guardavi in alto. Mi irritava e mi calmava.”
“Sì.” Ma Federico ricorda anche il seguito: silenzio, poi un “Dormivi?”
alle 02:13; il cuore che usciva a correre. Ricorda la collana di vetro verde con cui lei giocherellava quando stava per cambiare discorso. La porta anche oggi. La perla batte sul tavolo: tic. La prima goccia di un temporale.
“Non sto bene,” dice lei all’improvviso. Stavolta la testa non pende a sinistra. “Non come credevo.”
Federico sente muoversi qualcosa: non pietà, nemmeno giudizio. La vecchia fame. “Hai provato a…?” però non finisce. Non vuole offrirle strumenti.
“Sì.” Sorride senza denti. “A guarire da me? Non sono venuta per farmi salvare.”
“Temo il contrario,” ribatte lui. “Che sia io a chiedertelo.”
Tra loro due resta una fessura d’aria. In quello spazio ronzano le frasi dette e quelle mai dette.
Il telefono vibra ancora. Sarah: “Ehi. Tutto ok?” il pollice scorre e mette in silenzioso. Irene lo nota. Certi movimenti non le sfuggono mai.
“Chi è?”
“Una collega.”
“Carina?”
“Gentile.”
“Quindi sì.” L’orlo del cappotto gli tocca la scarpa e resta lì un istante.
“Con me non sei mai stato gentile.”
“Con te non serviva.” Le parole escono dure. Lei non si offende. Lo guarda con la pazienza dei predatori.
“Ti manco?”
La risata gli salirebbe in gola. Invece l’ago gira sotto pelle. Non il vecchio veleno soltanto: la sostanza che ordina di esserci. Conosce la curva: salita, plateau, crollo.

“Mi manca il silenzio prima di te,” dice. “E quello che arrivava dopo.”
“Anch’io.” La voce le si incrina appena. “Con te, a volte, sto peggio.
Però sento.”
“Farti sentire non è curarti.”
“Lo so.” Irene appoggia la mano sul tavolo, a pochi centimetri dalla sua. Piccole cicatrici da carta o vetro. “Portami fuori. Non per salvarmi. Per ricordarmi come si brucia.”
La scelta non è una svolta: è una traiettoria che continua. Federico lo sa. Il corpo si accorda alla decisione prima della mente.
Chiude il laptop. Infila i soldi sotto la tazzina. Si alza. Irene si alza insieme a lui. Passano alla vetrata: due figure sfocate, la collana che colpisce il vetro, ancora un tic. Pensa se l’istante potrebbe rompersi in
due. Non si rompe.
Fuori piove. Non cercano riparo. L’asfalto lucido restituisce città e fari, un doppio mondo. Lei prende il suo braccio, non la mano. Un gesto pratico. Gli va bene così.
Camminano, mentre il vento li prende di taglio. L’odore cambia, benzina e terra. Federico pensa al terapeuta. Poi a Sarah e a una birra che non berrà. Poi smette di pensare e ascolta: suole nell’acqua, pioggia sulle marmitte dei motorini, la collana che fa tic, tic, contro la zip. Un metronomo.
“E adesso?”
“Adesso si respira forte,” risponde Irene. “Finché fa male.”
In un vicolo un neon lampeggia; a ogni intermittenza la pelle cambia colore. Federico si ferma. Anche lei si ferma. Non promettono. Non giurano. Non nominano domani né mai.
La scelta è nel gesto con cui lui apre il braccio e la lascia entrare. Nel modo in cui lei non chiede, prende. Nel respiro che si sincronizza male, poi andrà meglio. Nel calore che arriva subito e nel freddo che resta in fondo, ad aspettare il momento giusto. In questa matematica non c’è giustizia, solo somma e sottrazione.
Domani verrà il sapore amaro. Lui lo sa. Verranno i conti: messaggi da cancellare, spiegazioni da inventare, sedute da ricominciare.

Verrà la febbre e la sua curva. Verrà l’aria che manca quando lei ripartirà con un “ci sentiamo” senza nessuna data. Verrà l’invidia delle facciate asciutte dall’altra parte della strada.
Ma adesso, sotto una pioggia che non cura e non assolve, Federico sta dove ha scelto di stare. Nel ronzio che lo riaccende. Nel fuoco che non illumina ma brucia. In quella sostanza che non salva e che pure dice: sei vivo. Non l’antidoto. Non il veleno e basta. Qualcosa nel mezzo: la puntura che divide il prima e il dopo.
Irene gli passa la collana. La pietra è fredda. “Ricordi?”
“Sì.”
Attraversano con il giallo. Alcuni fari li sfiorano. Una riga di luce si spegne. Non è speranza, non è rassegnazione. È la constatazione del proprio disegno: questa traiettoria che conosce e sceglie. Se la prende addosso.
“Vieni?” dice lei.
“Vengo.”
E vanno. Senza scuse. Senza scampo.
Con tutto il rumore che si sono meritati.

Aldo Palmeri

10-12 OTTOBRE | VARESE - Palazzo Estense

1° EDIZIONE

Il Villaggio del Condominio

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