Una testimonianza vera, una rete di colleghi e un’associazione che ha fatto la differenza
Qualche settimana fa, abbiamo raccontato con lucidità e un pizzico di disincanto il fenomeno fin troppo sottovalutato del burnout condominiale (leggi QUI). Sì, perché dietro la figura spesso equivocata dell’amministratore di condominio, c’è un essere umano. Un professionista travolto da mail aggressive, telefonate incessanti, pretese impossibili e l’arte – sempre più complicata – di cercare l’equilibrio tra l’irragionevolezza e la giustizia quotidiana. In quell’articolo abbiamo definito il burnout come un girone dantesco. Ma ora, a parlare, è chi quel girone l’ha attraversato davvero.
Chiara, 44 anni, madre, moglie, 15 anni di professione sulle spalle, non è il tipo da piangersi addosso. Eppure, quando l’abbiamo incontrata per questa intervista, lo sguardo fermo e pacato con cui racconta la sua storia ci ha fatto capire quanto il silenzio – quello delle pause troppo lunghe davanti al PC – possa dire più di mille parole.
“Non ce la facevo più. E non era stanchezza, era una nebbia dentro. Avevo paura anche solo di aprire la mail. Ogni giorno, una lamentele, un’ingiunzione, una contestazione. Ho iniziato a non dormire. Poi sono arrivati gli attacchi di panico. Ma per mesi ho continuato a dire a tutti, anche a me stessa: ‘Sto bene’. Perché? Perché sono un’amministratrice, devo essere solida, equilibrata, presente. È il mio lavoro. Ma anche le colonne portanti, se non vengono manutenute, crollano.”
Quello che Chiara ci racconta è qualcosa di noto a molti colleghi, ma poco condiviso pubblicamente. La solitudine professionale dell’amministratore di condominio, soprattutto in una società che delega sempre più, ma comprende sempre meno. In assemblea ci sei tu, solo. A rispondere, tu. A giustificare, tu. E quando torni a casa, spesso la testa resta in condominio.
“L’errore più grande – ci dice – è stato pensare di dover ‘reggere’. Che fosse normale svegliarsi col cuore a mille, o tremare davanti a una chiamata anonima. Che se mollavo, ero debole. Che chiedere aiuto era da incapaci. E invece no. Il primo passo per salvarsi è parlarne.”
A farle aprire gli occhi è stato un collega, incrociato in un webinar. “Non parlava neanche di burnout, parlava di tempo. Di come aveva imparato a ritagliarselo. Ho scritto in chat: ‘Come hai fatto?’. Mi ha risposto in privato: ‘Ne parliamo domani, se vuoi’. Quelle parole mi hanno salvato.”
Chiara ha poi trovato il coraggio di confidarsi anche con altri colleghi e, infine, ha scritto all’associazione di cui fa parte. “Pensavo che mi rispondessero con una pacca sulla spalla. Invece, mi hanno chiamato. Mi hanno ascoltata. Con rispetto. Con tatto. Mi hanno detto: ‘Non sei sola’. Mi hanno offerto un contesto in cui parlare senza vergogna, un gruppo di confronto tra pari. E poi, dei professionisti per capire se e come prendermi una pausa. Mi hanno preso per mano, letteralmente. E da lì è iniziato il ritorno.”
Questo articolo non vuole solo raccontare una storia. Vuole ricordare a chi legge – colleghi, condòmini, enti – che l’amministratore non è un supereroe. È una figura centrale della vita di tutti i giorni. Ma non può essere sempre disponibile, sempre impeccabile, sempre sorridente. Se è esausto, crolla l’intero ecosistema.
Il burnout professionale è una condizione riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Non è debolezza, è logoramento. E può colpire anche chi ha passione, competenze, energia. Per questo è fondamentale parlare, riconoscere i segnali, creare contesti in cui l’amministratore possa essere accompagnato e supportato.
Chiara ora ha ripreso a lavorare. Con ritmi diversi. Ha imparato a dire di no. A stabilire dei confini. E ha deciso di restituire il favore: oggi fa parte del gruppo di colleghi che accompagna chi sta attraversando quello che lei ha vissuto.
“Non è solo un lavoro tecnico. Noi teniamo in piedi piccoli mondi. Ma per farlo dobbiamo stare in piedi noi, per primi. E per restare in piedi, a volte, serve fermarsi.”
Alla fine dell’intervista, Chiara ci lascia con un messaggio per chi sta leggendo: “Se ti ritrovi in queste parole, non aspettare. Parla. Scrivi. Chiama qualcuno. Anche se è solo per dire ‘non sto bene’. E se sei dall’altra parte, ascolta. Magari puoi fare la differenza”.
Noi di Beneventi in Condominio crediamo profondamente in questo approccio. Dietro ogni regolamento, dietro ogni assemblea, dietro ogni rendiconto, c’è una persona. E se vogliamo davvero costruire condomìni migliori, dobbiamo iniziare a prenderci cura anche di chi li amministra. Con serietà. Con empatia. Con rispetto.
Redazione